Fonte: Corriere della sera – 13 novembre 2020
Oggi la sola proiezione visibile del mondo dell’istruzione per media e governanti avviene sul piano della didattica. Ciò come se la sola funzione del docente/ricercatore universitario consistesse nell’insegnare qualche ora, per poi tornare nei suoi agi di statale a bassa produttività. In quasi un anno di pandemia non si è sentita mai nominare la ricerca, di fatto l’unico discrimine tra buona e cattiva università. Insegnare ai tempi della pandemia è dura, tra monitoraggio di telecamere, schermi, microfoni e connessioni: ma poca cosa rispetto alla frustrazione di sentirsi esclusivamente etichettati come «vettori di contenuti». Dietro questa veicolazione ci sono ricerca, approfondimenti, abnegazione; su un piano ancora più invisibile e posteriore, supervisione di studenti, riunioni, verbali, convegni, seminari, e molto altro. In questi mesi, questo polimorfismo sta venendo sempre più schiacciato e proiettato in un’unica dimensione, come avviene nel romanzo Flatlandia. La pandemia blocca i contatti ma distanzia forse anche la percezione dei ruoli, degli sforzi quotidiani profusi per rendersi credibili davanti a una platea di ragazzi. Senza ricerca non saremmo buoni docenti, ma parleremmo un po’ come il protagonista de Le nuvole di Aristofane, Strepsiade, indottrinato alla bell’e meglio da Socrate solo per convincere il creditore a non esigere da lui quanto gli spetta. Ecco, i ragazzi a cui insegniamo sono creditori di una didattica trasudante di buona ricerca.
Redazione