Fonte: Corriere della Sera – 26 febbraio 2021
Cristina Messa — medico, professore ed ex rettore dell’Università Bicocca di Milano — da due settimane è ministro dell’Università e non ha perso tempo: ha già scelto i vertici di tre enti di ricerca (Ingv, Inrim e Area science park di Trieste). Tra le emergenze di questi mesi c’è anche quella della ripresa delle lezioni in presenza nelle università. «Tutti i rettori vorrebbero riaprire le loro aule, ma la situazione — lo dico anche da medico — consiglia cautela. Mi auguro che dopo il 6 aprile anche gli atenei possano tornare verso la normalità». Come sarà l’università dopo gli investimenti con gli 11 miliardi del Recovery plan destinati al suo ministero? «Innanzitutto spero che in cinque anni il numero di laureati possa crescere dall’attuale 27,6 per cento (tra i giovani fino a 34 anni) almeno fino al 35 per cento. Purtroppo scontiamo un grande ritardo: avremmo dovuto arrivare al 40 per cento lo scorso anno secondo gli obiettivi europei».
Come si fa?
«Investiremo per fornire ad un numero maggiore di giovani percorsi universitari più adeguati al futuro. Penso alle lauree interdisciplinari, senza percorsi rigidi ma che mischino le diverse materie dei dipartimenti perché oggi le sfide che abbiamo davanti richiedono competenze in più discipline. E credo che vada dato più spazio anche alle soft skill nel curriculum. Sono già al lavoro anche per creare corsi di laurea innovativi e legati al mondo produttivo».
Oltre agli Its di cui ha parlato Mario Draghi nel suo discorso al Senato?
«Con i ministri Colao e Bianchi stiamo studiando un piano per gli Its ma immagino anche lauree innovative che siano collegate al mondo produttivo, per l’ingegneria e anche per il turismo». (…)
Per aumentare gli immatricolati ci vogliono anche misure per il reddito.
«Con fondi del Recovery plan le università potranno costruire nuovi campus per accogliere gli studenti. Ma penso anche a borse di studio per i meritevoli o chi ha bisogno. Credo anche che per aumentare gli studenti bisognerà aumentare i docenti. Un solo dato: in Gran Bretagna il rapporto professori studenti è uno a dodici, da noi uno per 35». Investire nelle materie stem — scienze, tecnologia, ingegneria e matematica — è uno degli obiettivi di questo governo: come si fa a convincere le ragazze?
«Ci vuole più orientamento nelle scuole superiori: purtroppo è anche un problema culturale. Per esempio, io gli studenti che vogliono fare medicina li porto in reparto prima che scelgano: è un metodo infallibile».
Capitolo ricerca: l’Italia arranca, con l’1,4 per cento del Pil destinato al settore. Che cosa prevede nel Recovery plan?
«Siamo 27esimi in ambito europeo: servirebbero almeno 50 mila nuovi ricercatori. Scontiamo anni di sottofinanziamento, di progetti discontinui e di disorganizzazione. Una prima soluzione a portata di mano è quella di favorire la mobilità dei ricercatori tra università, enti di ricerca e privati. Questo potrebbe rendere più attivo e competitivo l’intero sistema: vuol dire adeguare gli stipendi e le carriere, ma anche sburocratizzare, far circolare i ricercatori, rendere tutto più trasparente».
Ogni anno quando vengono annunciate le borse europee Erc, in Italia è polemica: anche i ricercatori italiani vanno all’estero per fare ricerca.
«Ho chiaro il problema. Per attrarre ricercatori servono infrastrutture, laboratori e certezza della carriera».
Medicina, aumenteranno ancora i posti, o saranno 13.500 come lo scorso anno?
«Resteremo su quella cifra. Il problema al momento sono le specializzazioni: ancora oggi abbiamo quasi quattrocento posti liberi perché ci sono alcune specialità molto importanti, come anestesia e microbiologia, per le quali non ci sono candidati».
Abstract articolo di Gianna Fragonara