Fonte: orizzontescuola.it – 11 marzo 2021
Nuova importante sentenza della Cassazione sul diritto dei precari di non avere più discriminazioni rispetto al personale di ruolo, fatte salve le questioni che afferiscono alle esigenze del rapporto a termine e che non possono pertanto essere equiparate a quelle del personale di ruolo.
La Corte d’ Appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di primo grado che aveva rigettato tutte le nei confronti del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, ha infatti condannato il Ministero appellato «al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, in favore della parte appellante di 2,5 mensilità sulla base dell’ultima retribuzione mensile globale di fatto nonché delle somme derivanti dall’applicazione, in misura pari a quelle dei colleghi di lavoro a tempo indeterminato, degli aumenti conseguenti all’anzianità maturata, computata nel limite dell’ultimo decennio dalla costituzione in mora, con interessi legali dal dovuto al saldo». La Corte territoriale ha riconosciuto che l’ATA era stata reiteratamente assunta con contratti a tempo determinato per svolgere le mansioni di assistente amministrativo ed era stata destinataria di incarichi annuali, nonché di incarichi temporanei fino al termine delle attività didattiche. Il giudice d’appello ha escluso che l’appellante potesse pretendere l’instaurazione di uno stabile rapporto di impiego a tempo indeterminato ed ha ritenuto ostativo il divieto di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, aggiungendo anche che la disciplina del reclutamento del personale scolastico è speciale rispetto a quella generale dettata dal d.lgs. n. 368/2001 sicché non trova applicazione l’art. 5, comma 4 bis, di quest’ultimo decreto. Si pronuncia la Cassazione Civile Sent. Sez. L Num. 4194/2021. (…)
Non ci sono ragioni per cambiare orientamento su diritto di non discriminazione. Come si legge “Non si ravvisano, pertanto, ragioni che possano indurre il Collegio a rimeditare l’orientamento già espresso, al quale va data continuità, perché anche in questa sede il Ministero sovrappone e confonde il principio di non discriminazione, previsto dalla clausola 4 dell’Accordo quadro, con il divieto di abusare della reiterazione del contratto a termine, oggetto della disciplina dettata dalla clausola 5 dello stesso Accordo. Che i due piani debbano, invece, essere tenuti distinti emerge già dalla lettura della clausola 1, con la quale il legislatore eurounitario ha indicato gli obiettivi della direttiva, volta, da un lato a “migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione”; dall’altro a “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”. L’obbligo posto a carico degli Stati membri di assicurare al lavoratore a tempo determinato “condizioni di impiego” che non siano meno favorevoli rispetto a quelle riservate all’assunto a tempo indeterminato “comparabile”, sussiste, quindi, anche a fronte della legittima apposizione del termine al contratto, giacché detto obbligo è attuazione, nell’ambito della disciplina del rapporto a termine, del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione che costituiscono “norme di diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela” (Corte di Giustizia 9.7.2015, causa C-177/14, Regojo Dans, punto 32).
Abstract articolo di avv. Marco Barone