Forse ci siamo dimenticati quanto invidiavamo, alla loro età, i ragazzini dei film americani che avevano una stanza tutta per sé, dove gli adulti non potevano entrare: «Danger, keep out», recitava l’immancabile cartello sulla porta. Eppure mai come adesso che questo secondo lockdown, per quanto più soft del primo, ci costringe di nuovo tutti a casa, loro in Dad noi in smartworking, i confini domestici andrebbero rispettati. «Sono molto preoccupato – dice Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano – soprattutto per i ragazzi più grandi che in questa fase dovrebbero elaborare il distacco dai genitori. E invece si ritrovano di nuovo chiusi in casa in ostaggio di mamma e papà». Non è solo la scuola a mancare, ma tutto il resto: gli allenamenti sportivi, una pizza con gli amici, un’uscita con la ragazza. Certo, ci sono le chat e le varie piattaforme su cui darsi appuntamento e vedersi. «Ma un bacio sulla bocca è un’altra cosa – continua Mantegazza -. Smettiamola di far finta che i nostri figli non si stiano perdendo niente. Basta anche con questa esaltazione della resilienza dei ragazzi. Loro saranno anche adattabili ma si stanno perdendo un sacco di cose fondamentali alla loro età: come andare a un concerto rock con gli amici, con tutti gli annessi addentellati di questi riti di passaggio». Che fare per limitare i danni? «Intanto bisognerebbe permettere ai ragazzi di avere un po’ di privacy: una stanza tutta per sé in cui starsene per i fatti loro». E se la casa è piccola e non lo consente? «Basta battezzare una camera che possa servire allo scopo. Anche a rotazione:una volta per me, un’altra per te. In modo che a turno tutti possano starsene un po’ in pace, da soli, lontano dagli sguardi degli altri». Il problema è che con il Covid tutto è diventato virtuale, mica solo la scuola: anche lo sport. Gli allenamenti di calcio o pallanuoto sono sospesi? Puntuale, arriva la lezione su zoom. Ma non è certo la stessa cosa. Non solo perché un conto è fare sport all’aperto o in piscina, tutt’altra cosa è allenarsi in camera su un tappetino. «Anche in questo caso – spiega Mantegazza – i ragazzi non hanno margini di libertà. Manca lo spogliatoio, dove di solito a fine partita se la raccontano su, magari anche prendendosela con l’allenatore». Finiti i compiti, dovrebbero poter stare un po’ in pace, farsi i fatti loro, o anche niente. Anche i pranzi e le cene, in questa situazione di semi cattività, cambiano faccia. Un conto è quando la mattina ognuno va per la sua strada, chi a scuola chi al lavoro, e poi la sera ci si ritrova attorno a un tavolo. « Ma per come siamo messi adesso – dice Mantegazza – io penso che ogni tanto farebbe bene ai ragazzi mangiare da soli: un pasto a scelta, in cui tocchi a loro cucinare, apparecchiarsi la tavola e sparecchiarla. Anche questo è un modo per dare loro degli spazi di autonomia che in questo momento gli sono negati». Su una sola cosa Mantegazza predica un po’ più di ordine e disciplina: la cura di sé. «Questo fatto di fare lezione con i pantaloni del pigiama non va bene. Non è un problema di rispetto dei prof, ma di se stessi. Alla mattina ti lavi, ti trucchi, ti metti un po’ di fondotinta. La socialità non si può recuperare, ma l’amore di sé, quello non bisogna mai perderlo».
E dopo questa esperienza, per certi versi traumatica, cosa chiedono i ragazzi al mondo degli adulti? Essenzialmente un cambiamento, specialmente nell’approccio con certi temi come l’inquinamento e alle responsabilità dell’uomo. Si percepisce insomma un processo di colpevolizzazione dell’organizzazione sociale, come se la crisi costituisse un campanello di allarme per le scelte e i comportamenti da adottare in futuro.
Gaia Lupattelli