Così come i bambini hanno la necessità di ricevere dei no per potersi formare, allo stesso modo necessitano di avere delle regole. Le regole servono per avere una linea da seguire, per avere la sensazione che chi ci guida sa quello che fa, le regole servono per vivere in comunità, che sia essa familiare, scolastica, lavorativa o di qualunque tipo. In famiglia, a scuola, le regole le dettano i genitori o gli insegnanti e devono essere dettate nel rispetto delle esigenze degli altri. Le regole devono essere poche, semplici e chiare e i primi a rispettarle devono essere coloro che le impongono.
Se è vero che quella maestra di Treviso («no mask e no vax», stando ai suoi profili web) ha detto ai suoi alunni di togliersi le mascherine perché «tanto muoiono solo i vecchi», non deve mai più mettere piede in classe. E non solo perché la battuta sugli anziani, se accertata, è troppo volgare e diseducativa in una società in cui il rispetto per i nonni è stato travolto dalla cultura dello scarto. Ma per un motivo non meno grave. A che serve reintrodurre l’educazione civica nella scuola se poi un’insegnante, per una sua opinione, insegna agli alunni (addirittura dicendo loro a quanto pare: «Io sono la maestra, dovete obbedire»!) a non rispettare regole dello Stato? Certo, se si trattasse di inculcare nella testa dei bambini principi di violenza, odio o superiorità razziale ogni insegnante avrebbe diritto a opporre la propria obiezione di coscienza. Ovvio. Un maestro cui lo Stato democratico affida i suoi cittadini da crescere ha davvero diritto a dire quel che gli passa per la testa su temi come questo? E a insegnare da subito ai bambini a non rispettare le regole? Non è «solo» una questione sanitaria imposta dalla pandemia. Dio sa, in questi mesi, quante volte è stata invocato un maggior senso di disciplina. «Vi preghiamo…», «Vi scongiuro…», «Mettetevi una mano sulla coscienza…», «Ci appelliamo al vostro senso di responsabilità…». Il sociologo e filosofo Émile Durkheim, oltre un secolo fa, scriveva: «Non tutto è gioco nella vita; bisogna quindi che il bambino si prepari allo sforzo, alla frustrazione, e di conseguenza sarebbe disastroso lasciargli credere che tutto si può fare giocando». Aveva torto?
Gaia Lupattelli