Fonte: Il Sole– 5 febbraio 2021
L’education entra con forza tra le priorità dell’agenda del premier incaricato, Mario Draghi dopo due anni di scuola a singhiozzo per il covid tra lezioni da remoto e in aula, un gap formativo stimato tra il 30 e il 50% in matematica e nelle lingue. A suonare la sveglia, del resto, era stato più volte proprio l’ex presidente della Bce, in ultimo a metà agosto intervenendo al meeting di Rimini, quando, parlando di «debito buono», vi aveva subito inserito l’«investimento in capitale umano e nei giovani», ricordando, poi, come i paesi che «meglio hanno risposto all’incertezza e alla necessità di cambiamento» siano stati proprio quelli «che hanno assegnato un ruolo fondamentale (e risorse, ndr) all’educazione», con programmi pluriennali. Parole, purtroppo, rimaste inascoltate. A settembre i corsi di recupero sono stati un mezzo flop (in tanti istituti neppure si sono svolti); i fondi (circa 300 milioni) per il nuovo piano di recuperi formativi sono in stand-by, come tutto il nuovo decreto Ristori, a causa della crisi dell’esecutivo Conte 2; e le stesse bozze di piano italiano sul Recovery Fund, seppur individuano delle linee d’azione, hanno però postato poche risorse su progetti confusi e slegati tra loro. Sui quattro capitoli “core”, orientamento e materie Stem, Its, apprendistato, dottorati industriali e laboratori innovativi, capaci di rilanciare la scuola italiana sono stati messi, in totale, circa 9 miliardi; ce ne vorrebbero più del doppio, oltre 20 (23, per l’esattezza, secondo imprese ed esperti). (…) Nelle bozze di Recovery Plan è stanziato 1,08 miliardi (capitolo «Sostegno all’innovazione per le pmi»). Ne servirebbero almeno tre, per far decollare la convenzione Università-Cnr-Confindustria sui dottorati industriali (che sta funzionando) e realizzare le passerrelle con gli Its. In sintesi, va costruita quella gamba «professionalizzante», che è realtà all’estero. Ancora no in Italia.
Abstract articolo di Claudio Tucci