Gli studenti italiani non scrivono più in corsivo.
E non è una questione di poco conto.
Come è risaputo, con l’impiego dei dispositivi digitali si scrive sempre meno a penna, così come non è una novità che i messaggi condivisi sui social siano composti in stampatello.
Ma che i giovani arrivassero ad abbandonare il corsivo, fino al punto di avere vere e proprie difficoltà nel riuscire a utilizzarlo, era forse impensabile.
Eppure è quanto è stato confermato in vari studi ed ora è stato lanciato un vero e proprio allarme.
Non si tratta infatti soltanto della difesa di una componente importante della nostra lingua e della cultura italiana.
L’aspetto importante è che l’esercizio di scrittura ha rilevanza per il potenziamento delle capacità cognitive. Pochi sanno che il corsivo della lingua italiano è stato pensato per permettere di comporre le parole senza staccare mai la penna dal foglio, potendo collegare tra loro la gran parte delle lettere.
Questo perché scrivere potendo tracciare le parole in un continuum è un esercizio che fa bene al cervello.
A maggior ragione l’abbandono del corsivo sta preoccupando gli studiosi, anche perché parallelamente si assiste a un aumento dei disturbi della scrittura.
I risultati dello studio sulla leggibilità della scrittura nei bambini romani, pubblicati sulla rivista “Occupational therapy in health care” ha evidenziato dati preoccupanti.
Ben il 21,6% dei bambini ha evidenziato lo sviluppo di problemi di scrittura, mentre il 10% ha una scrittura “disgrafica”.
Il lato più grave è che il 5% dei bambini con problemi di disgrafia soffre di disturbi specifici come della coordinazione motoria o alla dislessia. I disturbi di apprendimento vanno invece dal 5% al 15%.
L’uso di tablet e l’impiego dello stampatello non è l’unica causa all’origine dei problemi.
Il dito è puntato contro il metodo di apprendimento seguito in classe.
La scrittura è infatti un’abilità che va appresa, e se non si dedica tempo anche alla scrittura in corsivo le conseguenze ricadono anche sull’apprendimento e sulle capacità cognitive.
Alberto Barelli